COME ERA PRIMA
Il licenziamento
nelle aziende con un numero di dipendenti superiore ai quindici viene
sostanzialmente catalogato nei seguenti tre modi diversi.
Per
giustificato motivo soggettivo. Si caratterizza per il fatto che
è riferito al soggetto (singolo lavoratore), e che il licenziamento
deve essere per una giusta causa (grave mancanza, fatto che generi
sfiducia nel rapporto ecc.) ossia motivato dal datore di lavoro con
ragioni credibili e incontestabili. Nel caso che il lavoratore si
rivolga al giudice è onere del datore di lavoro provare
rigorosamente la fondatezza del licenziamento.
Per
giustificato motivo oggettivo. Può essere singolo o plurimo. Si
caratterizza per il fatto che normalmente è riferito alla chiusura
di una branca dell’attività aziendale (reparto, sezione, filiale,
o tipo particolare di attività).
Nel
caso che il lavoratore si rivolga al giudice, non solo il datore di
lavoro deve provare – come per la giusta causa – la fondatezza
del licenziamento, ma deve dimostrare altresì la impossibilità del
riutilizzo di ogni singolo lavoratore in altri reparti dell’azienda,
anche ed eventualmente con diverse mansioni. Se le mansioni sono di
valore inferiore il trasferimento è ovviamente subordinato alla
accettazione da parte del lavoratore, e solo quando sia dimostrata la
impossibilità di riutilizzo a parità di mansioni.
Licenziamento
collettivo. Si caratterizza per il fatto che è riferito alla
azienda in via di ridimensionamento che, pur restando in vita, si
struttura diversamente e si riorganizza completamente: producendo
cose diverse o con sistemi e criteri totalmente diversi, tali da
impedire l’utilizzo di tutti o parte dei lavoratori per le mansioni
che svolgevano in precedenza.
L’onere della
prova della ristrutturazione è a carico del datore di lavoro (che
però lo deve assolvere nei confronti delle OO.SS. dei lavoratori e
non nei confronti del giudice), e il licenziamento collettivo avrebbe
validità soltanto qualora fosse dimostrata giudizialmente la
inefficacia della Cassa Integrazione (Cig). Infatti, secondo la
interpretazione del giudice non si può fare il licenziamento
collettivo se prima non si sperimenta la Cig.
Poiché davanti
al giudice del lavoro le garanzie per il lavoratore sono limitate ai
criteri di selezione operati dal datore di lavoro, tutta la parte
riferita alla verifica delle motivazioni e delle prove, sia per i
licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, che per quelli
collettivi, è a carico delle Organizzazioni Sindacali. Questo perché
la legislazione italiana è carente: in quanto non solo non
stabilisce quali provvedimenti adottare nel caso in cui le
motivazioni addotte dal datore di lavoro per i licenziamenti
risultino false e non credibili, ma non ne consente al giudice
nemmeno una verifica platonica.
La capacità di
respingere i licenziamenti (al di là della discussione davanti al
giudice dei criteri di selezione adottati) rimane quindi solo ed
esclusivamente legata alle capacità di lotta in difesa del posto di
lavoro da parte dei lavoratori interessati.
Il tempo utile
per impugnare il licenziamento è per il lavoratore di 60 giorni a
partire dalla data di ricevimento della lettera raccomandata che lo
comunica (solo in caso di maternità i giorni utili diventano 90).
Considerazione comune. Nella vita lavorativa non esiste momento più drammatico di quello in cui si riceve la lettera di licenziamento.
Nei fatti, chi
ha fondate ragioni per ritenere il suo licenziamento illegittimo,
deve impugnare il licenziamento entro sessanta giorni facendo
obbligatoriamente richiesta di incontro preventivo all’Ufficio
Provinciale del Lavoro e aspettare. Dopo qualche mese viene fissato
l’incontro, al quale il datore di lavoro non ha l’obbligo di
presentarsi. Oppure si presenta e conferma il licenziamento.
Allora
finalmente l’avvocato può dare inizio alla causa. Dopo qualche
settimana (se tutto va bene e l’avvocato non è troppo impegnato)
viene presentato il ricorso in cancelleria del Tribunale del Lavoro.
Dopo qualche altra settimana il pretore dirigente assegna al giudice
la causa. Il giudice che riceve la causa fissa la data dell’udienza
nei sei-otto mesi successivi. Mettendo tutto insieme il lavoratore si
trova davanti al giudice la prima volta per fare valere i suoi
diritti dopo almeno un anno.
Si contano sulle
dita di una mano i lavoratori che sono riusciti ad aspettare un anno
senza lavorare prima di poter far valere i propri diritti rispetto a
quei lavoratori che, letteralmente “presi per fame”, hanno alla
fine accettato una soluzione economica in cambio di un licenziamento
palesemente illegittimo.
COSA SUCCEDE ORA
COSA SUCCEDE ORA
Il Ministro
Sacconi ha trasformare in Legge una palese ingiustizia che già
avviene nei fatti. In pratica adesso le aziende con più di 15
dipendenti potranno ricorrere più facilmente ai licenziamenti senza
giusta causa, aggirando il divieto sancito dall'articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori, potendo sfruttare misure di "indennizzo"
alternative al reintegro del lavoratore, se questo potere sarà dato
loro da un'intesa con i sindacati maggioritari in azienda.
La "rivoluzione"
è contenuta nell'emendamento della maggioranza all'articolo 8 della
Manovra, approvato dal Senato lo scorso giovedì 8 settembre.
Va tuttavia
specificato che saranno esclusi dalle deroghe possibili al contratto
nazionale di lavoro licenziamenti discriminatori in caso di maternità
e congedi parentali. Infatti, si legge nel testo che verrà "fatta
eccezione per il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del
matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del
periodo di gravidanza fino al termine di interdizione al lavoro,
nonché fino a un anno d'età del bambino, il licenziamento causato
da una domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la
malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed
il licenziamento in caso di adozione o affidamento".
IN SINTESI
L'ART. 18
L'art. 18 dello
Statuto dei Lavoratori afferma che il licenziamento è valido se
avviene per giusta causa o giustificato motivo.
In assenza di
questi presupposti, il giudice dichiara l'illegittimità dell'atto e
ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. In
alternativa, il dipendente può accettare un'indennità pari a 15
mensilità dell'ultimo stipendio, o un'indennità crescente con
l'anzianità di servizio.
Il lavoratore
può presentare ricorso d'urgenza e ottenere la sospensione del
provvedimento del datore fino alla conclusione del procedimento,
della durata media di 3 anni.
Nelle aziende
che hanno fino a 15 dipendenti, se il giudice dichiara illegittimo il
licenziamento, il datore può scegliere se riassumere il dipendente o
pagargli un risarcimento. Può quindi rifiutare l'ordine di
riassunzione conseguente alla nullità del licenziamento. La
differenza fra riassunzione e reintegrazione è che il dipendente
perde l'anzianità di servizio e i diritti acquisiti col precedente
contratto (tutela obbligatoria).
Nessun commento:
Posta un commento